"Fresco di stampa": Mahmud Darwish, "Non scusarti per quel che hai fatto", Crocetti Editore, 2024


Traduzione a cura di Sana Darghmouni e Pina Piccolo

*

E io, anche se fossi l’ultimo

E io, anche se fossi l’ultimo,
troverei parole sufficienti...
Ogni poesia è un disegno
traccerò ora per la rondine la mappa della primavera
e per i pedoni sul marciapiede il tiglio
e per le donne i lapislazzuli...
Quanto a me, la strada mi porterà
e io la porterò sulle spalle
finché ogni cosa avrà riacquistato la sua immagine
così com’era,
e poi il suo nome originale.
Ogni poesia è una madre
alla ricerca del fratello della nuvola
vicino al pozzo:
“Figlio mio! ti darò un sostituto,
sono incinta...”.
E ogni poesia è un sogno:
Ho sognato un sogno
che mi avrebbe portato e che avrei portato
fino a scrivere l’ultima riga
sul marmo della tomba:
“Ho dormito... per poter volare.”

E porterò a Cristo le sue scarpe invernali
così potrà camminare, come tutti,
dai monti più alti... verso il lago.

*

Al nostro paese

Al nostro paese,
quello vicino alla parola di Dio
un soffitto di nuvole,
al nostro paese,
quello distante dagli attributi del nome
la mappa dell’assenza,
al nostro paese,
quello minuscolo come un seme di sesamo
un orizzonte celeste... e un abisso nascosto,
al nostro paese,
quello povero come le ali di un gallo cedrone
libri sacri... e una ferita nell’identità,
al nostro paese,
quello circondato da colline dilaniate
l’imboscata di un nuovo passato,
al nostro paese, bottino di guerra,
la libertà di morire di brama e di struggimento.
Il nostro paese, nella sua notte insanguinata,
è un gioiello che brilla per le distanze più lontane
e illumina ciò che è al di fuori di lui...
Quanto a noi, dentro,
soffochiamo ogni giorno di più!

*

A Gerusalemme

A Gerusalemme, intendo dentro le antiche mura,
cammino da un tempo all’altro
senza un ricordo che mi orienti.
I profeti laggiù si dividono la storia del sacro
salgono al cielo e tornano meno abbattuti e tristi,
perché l’amore e la pace sono sacri e arriveranno in città.
Cammino su un pendio sussurrando: come è che i
narratori non si accordano
sulle parole della luce in una pietra?
Le guerre si appiccano da una pietra di luce fiacca?
Cammino nel mio sonno.
Occhi spalancati nel mio sogno.
Non vedo nessuno dietro di me. Nessuno davanti.
Tutta questa luce mi appartiene.
Cammino. Divento più leggero.
Volo e mi trasfiguro.
Le parole crescono come erba
nella bocca profetica di Isaia:
“... Ma se non crederete, non resterete saldi”.
Cammino come se fossi un altro da me, e la mia ferita
una rosa bianca, evangelica. Le mie mani, come due
colombe sulla croce,
volteggiano e portano la terra.
Non cammino. Volo e mi trasfiguro.
Nessun luogo, nessun tempo. Chi sono io, dunque?
Non sono in presenza dell’ascesa.
Ma mi domando: solo il profeta Muḥammad parlava
arabo fuṣḥā? E poi?
E poi? Una soldatessa mi urla all’improvviso:
“Ancora tu? Non ti avevo ucciso?”.
Dico: “Mi hai ucciso... ma, come te,
ho dimenticato di morire”.

*

Il sogno, che cos’è?

Il sogno, che cos’è?
Che cos’è questo niente questo
passante del tempo,
questo splendore di stella all’inizio dell’amore,
delizioso come l’immagine di una donna
che si massaggia il seno al sole?
Che cos’è? Riesco a malapena a vederlo prima
che svanisca nello ieri.
Non è realtà di cui si senta peso e leggerezza
né il contrario che ti permetta di librarti
nello spazio dell’intuizione.
Che cos’è, che cos’è questo niente, questo fragile
questo infinito, debole, intimo
visitatore, esplosivo, disperso,
rinnovabile e pluri-informe?
Che cos’è? Non è palpabile né si può toccare
né tende una mano a chi è confuso o si strugge
allora che cos’è questa cosa misteriosa,
perplessa, cauta e sconcertante?
Quando sicuro di me attendo la sua visita
mi spezza uscendo come una perla
che rotola nella propria luce,
e mi dice: “Non stare lì ad aspettarmi
se vuoi che io venga a trovarti
non aspettarmi!”.

*

È una frase nominale

È una frase nominale, senza verbo
in lei o per lei: al mare, l’odore dei letti
dopo aver fatto l’amore... profumo salato
o acido. È una frase nominale: la mia gioia,
ferita come il tramonto sulle finestre della straniera.
Il mio fiore, verde come la fenice.
Il mio cuore, al di là della necessità, perplesso tra due
porte:
l’entrata è uno scherzo, l’uscita un labirinto.
Dov’è la mia ombra-guida in mezzo alla folla
sulla via della resurrezione?
Se solo fossi pietra antica dai colori scuri, castano e nero,
nelle mura della città, insensibile
ai miei visitatori e all’interpretazione delle ombre.
Se solo il presente del verbo avesse un rifugio
per camminare, a piedi scalzi, dietro o davanti a me.
Dov’è la mia seconda strada alla scala dell’orizzonte?
Dov’è il fatuo?
E la strada per la strada?
E noi, che camminiamo sui passi del verbo presente,
dove siamo?
Le nostre parole, predicato e soggetto davanti al mare. E
la schiuma sfuggente
nelle parole, puntini sulle i.
Se solo il presente del verbo
avesse un punto d’appoggio
sul marciapiede...

*

Mahmud Darwish nasce nel 1941 ad al-Birwa, nell’alta Galilea. Con l’espulsione di massa dei palestinesi, e la costituzione dello stato di Israele (1948), il suo villaggio viene distrutto. La sua famiglia si rifugia in Libano e rientra clandestinamente in Palestina dopo un anno. Da allora Darwish vive nella condizione di profugo e “clandestino” nella sua stessa terra governata da Israele. Per il suo attivismo politico è più volte incarcerato e condannato agli arresti domiciliari. La sua vita è segnata dall’esperienza dell’esilio in Europa e, nel mondo arabo, in Egitto, in Libano e a Tunisi al seguito dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina, del cui consiglio esecutivo fa parte dal 1987 al 1993. Dopo gli accordi di Oslo (1993) rientra nella sua terra e vive tra Ramallah, in Cisgiordania, e Amman, in Giordania. Spesso definito “il poeta nazionale della Palestina”, Mahmud Darwish si dichiarava “cantore universale dell’amore e della libertà”. I suoi versi, conosciuti e amati in tutto il mondo arabo, in ogni contesto sociale, sono stati musicati da alcuni tra i maggiori compositori arabi. Le sue opere sono state tradotte in più di venti lingue e in tutto il mondo gli sono stati assegnati numerosi premi. Quando Mahmud Darwish muore dopo un’operazione al cuore a Houston (Texas), il 9 agosto 2008, l’Autorità Palestinese proclama tre giorni di lutto nazionale. Ai funerali di stato, a Ramallah, partecipano decine di migliaia di persone.





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