"Fresco di stampa": Stefano Bortolussi, "Esilienze", Stampa 2009, 2023


La sensazione all’arrivo
non è quella di pelle mutata,
abbandonata di rettile freddo di sangue
e ingratitudine: è un sentire obliquo,
doppio perfino, iniettato di colpa
al pensiero dell’esilio vero
di chi parte da un tutto di tragedia
verso il nulla dell’ignoto;
ma la ferita che si riapre puntuale
a ogni rotazione di flap, discesa di carrello,
stridore di ruote gigantesche sulla pista
è quasi tattile di presenza, ingombrante,
e perde per giorni un siero trasparente
di lacerazione – e medicarla è parte
dell’emozione fratta di essere qui,
a occidente di te stesso, e al contempo
sempre lì, da dove sei partito.

*

Il sonno a volte genera più confusione
che riposo, specialmente quando irride
lustro e sfuggente come creatura di palude,
solletica e indietreggia come schiuma di battigia;
e per il tempo che impieghi
a sbrigare la burocrazia del risveglio
non ricordi più se è qui o lì
che le finestre sul retro di casa sono spiate
da vicini curiosi di cosa metti in valigia
oppure salutate dalla vulva che si apre
nella roccia a sud-ovest,
se l’esplosione di suoni nella notte
è coro di esultanze per la vittoria in coppa
o lotta rossa di zanna dei procioni
nel folto del ligustro dietro casa:
non ricordi più la stessa relazione fra qui e lì,
quale viene prima, quale dopo, dov’è l’arrivo
e dove la partenza – ma è proprio allora
che il pensiero ti ravviene che sei sempre tu,
doppio disperso e bi-continentale ma ancora,
chissà per quanto, riconducibile a te stesso.

*

Ti vesti di bianco
in onore della sera, come
a voler incarnare una figura
che non sei, l’uomo del mare
inesistente nella sua pace conquistata
– ti siedi qui, di fronte
a questo riquadro di cielo,
e di poco a occidente del tuo emisfero sinistro
(quello, ricordi, della lingua)
ti senti incorniciato da quest’albero
altrove chiamato della febbre,
aspiri grato il messaggio
che la sua natura gli impone di portare
e lo pensi destinato solo a te
da quanto esplicito ti sembra,
dimentico che all’intorno
e più in là, alla fine della gola,
dove la terra si arrende alle onde,
non vi è elemento che registri
il benché minimo sentore
di ciò che ti muove,
ti governa.

*

Chissà poi cosa vedi dall’acqua,
dall’orizzonte di questo tuo
distenderti appena sotto
il lembo argentato del mondo
nel cui profondo sembra guizzare,
fra le puntute scogliere dell’ansia
e i piani fondali del senno,
il segreto per allentare la morsa
delle chele sottili del giorno.
Come lontra che galleggiando sulla schiena
spezza quella del granchio ghermito,
qui solo, a quanto sembra,
riesci a tirare quello che
se non dovessi trattenere il fiato
                    chiameresti respiro.

*

34°19'8.54"N
119°23'4.92"W

Ritorno a Oceano

Mosso da sussurri nell’orecchio
come delicate confidenze o incitamenti
ad agire muscoli che l’anno ha assopito
con il suo semplice passare inosservato
vorresti raggiungere in un passo
la figura allettante che solleva spruzzi
laddove lo sguardo si posa sballottato
dallo zefiro tenace, ma qualcosa
ti frena che non è timore
– è più simile al portento di solo poter trarre
e trattenere questo dono di ioni negativi,
di accogliere il primo tentacolo di gelo
e subito il secondo, più adeguato
alla diversa creatura che sei diventato.
Solo dopo avanzi, le orme dietro di te
sempre più lievi dove Oceano
tende le dita a coprirle.

*

45°27'42"N
9°17'19"E

In solitario

Per questa confessione in campo aperto
non c’è bisogno di scomodare chimica
o facili rimandi a prenatali amniotici
– la propensione all’acqua sale in superficie
ogni volta che ti tuffi nell’idea di te;
di più, se in luogo di polmoni ora sotto assedio
avessi branchie, l’ideale condizione
sarebbe l’immersione fino e oltre
la sede di pensiero e di tormento.
In mancanza di questo, ti accontenti di allungarti
in solitario sulla distesa del lago artificiale;
e nel silenzio rifletti che forse non è un caso
che al momento di chiamarti al mondo
chi di dovere l’abbia fatto
in una città con trascorsi di acquitrino,
e che ancora oggi, quando scivoli sull’acqua,
boccheggi estasiato alla visione del persico
che decolla dal profondo a caccia di libellula,
del luccio che passa, guatando verso l’alto*,
appena sotto il remo che ha sospinto
il mulinello nel passato, e che ti apre
a un incontro forse solo immaginato.

*Ted Hughes, Lucci (da Lupercale, trad. Nicola Gardini)

*

Stefano Bortolussi, poeta, romanziere e traduttore letterario, è nato a Milano. Tra le sue principali raccolte di poesia Ipotesi di caldo (Book Editore, 2001), Califia (Jaca Book, 2014), I labili confini (Interno Poesia, 2016) e  Paternalia (Stampa 2009, 2020). Ha pubblicato i romanzi Fuor d’acqua (peQuod, 2004), Fuoritempo (peQuod, 2007), Verso dove si va per questa strada (Fanucci, 2013) e Billy & Coyote (Effigi 2017). Sue poesie sono comparse nell’antologia Bona Vox – La poesia torna in scena, curata da Roberto Mussapi (Jaca Book, 2010), nel terzo Almanacco dei poeti e della poesia contemporanea (a cura di Gianfranco Lauretano, Francesco Napoli e Walter Raffaelli (Raffaelli, 2015).





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