"Fresco di stampa": Silvia Rosa, "L’ombra dell’infanzia", peQuod, 2025
Un’ape allucinata che sbatte contro i vetri,
febbre che arrossa le guance, notte che
batte sui denti cariati. Sono questi i mali
rappresi in segni violacei sul rosa
delle albe d’infanzia, i guasti delle
lucciole che muoiono discrete sotto una
brina spessa. Io vorrei dire invece
lo strappo delle ali che buca la schiena,
la perdita del corpo un pezzo dopo l’altro
sotto il peso di un nome di fango e resina,
che lascia addosso un’onta indelebile
e in gola un fiore di spavento: vorrei
raccontare di come cresce nelle sere
di luna piena, cambiando colore e di come
diventano le mani di una bambina quando
scavano in bocca una fossa di silenzio.
*
Dopotutto voleva solo essere una figlia,
una madonnina inviolabile, la principessa
della fiaba con lieto fine, voleva un
papà, non importava che non fosse il suo,
che non le assomigliasse per niente,
voleva guardarlo negli occhi e leggere
l’ammirazione mista a orgoglio che faceva
sbrilluccicare le pupille dei padri di altre
bambine. Quelle che lei invidiava perché
non avevano nessun merito, niente per cui
fosse toccato loro in sorte vivere una tale
fortuna. Non erano più belle o più brave,
e nemmeno si sforzavano tanto di esserlo.
Lei invece cercava di risplendere per attirare
attenzioni: questa la colpa, pensò dopo. Il padre
posticcio iniziò a guardarla, eccome, ma
nel suo sguardo c’era una corrente giallo
lunare, una nebbiolina densa di rimandi
che scardinavano il senso dei giorni
rivoltando persino l’ordine delle ossa.
*
Estranea al mondo, monade
accucciata a latere, la bambina
balbetta un alone di parole che
non vanno da nessuna parte,
appannano solo il vetro che la
separa dagli altri, nell’invisibile
distanza in cui orbita non potendo
rivelarsi. Chi è questa bambina
spigolosa dalla chioma tutta tenebre
e la sottana strappata? È un garofano
cremisi, quintessenza della solitudine,
un bocciolo di fiato al vento, la
fanciulla ammutolita della fiaba
che tesse fili e fili d’ortiche e non può
svelare l’arcano capovolto di cui
si trova ostaggio, per così sfuggire
all’incantesimo e ai suoi nove anni
annodati malamente all’ombelico.
*
Le madri sono oggetti contundenti
la mano armata del dio
che vuole in pugno ogni bambino
e vuole romperlo in due – una metà
da stringere forte, l’altra da lasciare
all’abbandono –, sono le madri
un opaco paradiso una promessa
non mantenuta, sono la voce petulante
e cruda che risuona nell’ora della morte,
il volto ambiguo che indossa a volte
il dio dei bambini rotti.
Impara presto, bambina, che la crudeltà
è l’ultima salvezza, ricomponi la frattura,
vomita via ogni nome che non sia il tuo,
cercati due occhi nuovi, uccidi la madre
cattiva e poi rinnega quella buona,
non è mai esistita.
*
In un bisbiglio il drago tossisce fuoco atomico,
il timbro rauco dell’ordine di resa: la ventura
delle bambine mute, cigni candidi in uno stagno
siderale, è attraversare il tremito in apnea
delle schiene curve a quel comando, radunarsi
in pianto, imparare a contare all’infinito per
salvarsi, mentre il corpo perde peso e più
si solidifica, un marmo aguzzo e storto,
qualcosa d’altro, irriconoscibile, che si arma
dalle fondamenta. Non c’è un lieto fine, solo
un abbaglio che si scambia volentieri per vita,
quando la vita resta l’anemica promessa
di un dopo, di un disarmo impossibile, se non
a costo di non aprire becco o di raccontarsi
la favola rutilante del perdono.
*
La luce entrava di taglio
dalla finestra che si affacciava
sullo zucchero filato delle nuvole,
quel cielo ricamato, una placenta
in cui crescevano elefanti, fragole,
gelati, cavalieri che si trasformavano
in fretta portati via dal vento. Nidificare
su una tegola del tetto come certi colombi
dalle piume arruffate, oppure alzarsi
in volo, passerotto nel freddo di gennaio,
questo avrei voluto, seduta a terra,
fissando solo l’azzurro cangiante
incorniciato dietro ai vetri.
Ci sono infanzie che scorrono senza
un boato, altre invece si diramano
in mappe incomprensibili, che non
arrivano da nessuna parte, girando
su sé stesse ripiovono addosso
con un tonfo, una luce abbagliante,
il preludio sgranato del tramonto.
*
Silvia Rosa nasce a Torino, dove vive e lavora come docente. Ha esordito in poesia nel 2010 con il libro Di sole voci (LietoColle), a cui sono seguite le raccolte poetiche SoloMinuscolaScrittura e Genealogia imperfetta (La Vita Felice 2012 e 2014), Tempo di riserva (Ladolfi 2018) e Tutta la terra che ci resta (Vydia 2022).
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