"Fresco di stampa": Elisabetta Sancino, "Il corpo vegetale", Arcipelago itaca Edizioni, 2025
L’acqua deviata a sud è vortice
radice rovesciata di pino
e tutta la lontananza del bosco
che toglie il respiro
alle nove del mattino sono un’ombra
che lambisce le coste scoscese
l’alfabeto rupestre s’imprime
su gangli e gengive e sa
di ere dimenticate
in un lampo mi trasformo nella
scarica imprevista che aziona
la turbina e muove
i telai sotto le mani della madre
dalle dodici dita
– dove sei finita tu che portavi
nella crocchia il fior di robinia
tu che mordevi la spina?
*
Ambivi a scalare tutte le creste
ma c’era solo quel masso erratico
a sovvertire la monotonia della pianura
posavi la bici sull’erba e tastavi incredula
il reticolo di canalette e coppelle
come un braille accidentato dalle bufere
pensavi alla violenza dei ghiacciai
alla roccia strappata alla sua dimora
per ridisegnare la mappa della terra
pensavi all’amore che sradica e innesta
che fa di ogni abisso una vetta
*
Mi piace mangiare le amarene sull’albero
mi piace sputare il nocciolo per terra
perché poi ne cresce un altro
e un altro poi un altro ancora più alto
se il ramo si spezza ti spezzi il collo
ma io sono la bambina-albero
voglio un mondo in perenne rigoglio
*
Il grano si fa alto nell’afa
da perderci il respiro
tolgo la vestina di fustagno
mi adagio nel rigagnolo
indosso il campo
*
Quando avevo il segno
battevo le mani e l’ocra sgorgava
intorno alla casa
la casa con l’ocra intorno
accecava
di sera il cocchiere tornava dal campo
a volte tornava solo il cavallo stanco
il calesse straripava di fieno
e giallo fior di tarassaco
*
Non possiedo libri ma li divoro di soppiatto
nel rettangolo che confina
con la casa del padrone
quando esco dal magazzino me li trovo lì
posati sui tavoli come bimbi in attesa
amo gli atlanti e i libri di viaggio
a volte li annuso per trovarci qualcosa
frammenti d’oceano, lava
*
Questo lavoro ci ammazza
e si fa beffe della nostra giovinezza
siamo rami di sorbo spezzati
al culmine della primavera
quando la linfa si attiva con furia
la ferita non cicatrizza, urla
le oscenità che dentro la fabbrica
sono singhiozzi strozzati
colpi di tosse secca
*
Giugno capovolto
aratro del mio occhio
l’estate è scura come bitume
e appiccica dappertutto
vorrei dormire come le ragazze perbene
vorrei dormire
ma c’è in me qualcosa di desto
al pericolo della stanza
qualcosa di tenace e contorto
come le radici del ficus carica
che brilla intriso di luna
a due passi dalla finestra
abbatteremo l’albero che incrinava la casa
che traboccava in dolcezza
*
Scendo a tentoni alla riva
sulle cortecce le scie argentate
cuciono i vuoti dell’attesa
poi tu mi coglierai
aperta e spinata
fino al gorgo che acceca
*
Il lavatoio guarda di sguincio la luna
tace lo sciabordio delle mani
con l’artrosi che curva le dita
in strani alfabeti
di giorno l’urto delle sottane contro
le vasche d’acqua a temperatura costante
lancia gemiti come sassi
crepando le facciate delle villette operaie
con fini zoccolature in ceppo di fiume
ho perso le mie piume nel rettangolo
schiumoso di lisciva ho perso l’odore
di tilia tomentosa sperma palude
*
Elisabetta Sancino, nata e residente in provincia di Milano, è laureata in Lingue e Letterature Straniere Moderne a indirizzo storico-artistico e lavora come docente di lingua e letteratura inglese e guida turistica autorizzata di Milano e provincia. Da anni promuove e coordina eventi culturali e tiene conferenze su temi storici, artistici e letterari legati alla città di Milano. Ha pubblicato quattro libri di poesia: Frammenti viola (96, rue de-La-Fontaine 2016), Il pomeriggio della tigre (Terra d’ulivi 2018), Collezione privata (puntoacapo 2021) e L’ocra in punta di lingua (Lietocolle / Ronzani maggio 2023).