Fabrizio Sani, "Il contrario di abitare", i Quaderni del Bardo edizioni, 2022


Se fosse per me

Se fosse per il caro me stesso
mi dedicherei a te completamente,
inseguendo, nel silenzio della camera,
con la mia esule impronta
il tuo misterioso lignaggio.
Dandoti, nel rumore delle strade,
il braccio, il fianco e lo sguardo
ogni secondo di questi cent’anni.
Però è a te che consacro qualsiasi
opera o pensiero, pertanto
coltivo me stesso, mi lascio spazio.

*

Vincenza

L’assolo di civette snellisce la lama già sottile,
si stringe lo spazio tra un filo d’erba e l’altro.
Una signora anziana sale lentamente tre gradini,
i suoi passi lasciano impronte nell’aria.
Indugia sul pianerottolo,
sotto una fioca lampadina,
dentro la cornice del portico.
E si guarda indietro un istante.
La riesco a ricordare solo piegata da una gobba
di fatiche, mai lamentate;
comprava da me le tagliatelle all’uovo,
qualche detersivo,
un po’ di formaggio;
nei giorni di festa il suo cortile si affollava di auto
e mia madre le vendeva l’arrosto girato.
Il nostro abitare il mondo è abitare delle intercapedini.
Spegne la luce e rientra in casa.

*

Alaa Mashzoub

Tredici proiettili
non sono abbastanza per uccidere un poeta.
Serve ben altro,
serve più fantasia;
e permettetemi di dubitare della vostra fantasia.
Voi,
che disertate i cuori
e per primo il vostro.
Voi,
che brindate col sangue di Giuda
e azzannate il corpo tumefatto di una farfalla.
Voi,
con le vostre tavole imbandite
cenerete di gusto
e nei vostri letti comodi,
consumerete una buona notte.
Voi,
aprendo gli occhi,
vedrete il sole già alto sulla collina
e attraverso la finestra
sentirete sulla vostra pelle la brezza fresca del mattino
e restituirete, forse, un bacio alla vostra donna.
E non accuso voi che avete premuto
tredici volte il grilletto,
ma voi
che stringete accordi,
che fingete di vigilare,
che avviate indagini.
Voi,
vendete a poco prezzo
la vostra fantasia,
per un po’ di proiettili,
sempre troppo pochi per uccidere un poeta;
abbastanza solo
per far nascere un’altra poesia.

*

Una canzone triste

Mia nonna è il dipinto di mia nonna.
Mia nonna è l’inquilina di mia nonna.
Per me era il volto della domenica mattina
e qualche nascita e qualche morte e qualche eternità
che rotolavano dentro le rughe di un paese,
senza spingersi mai oltre la vecchia chiesa.
Mia nonna si avvicina lentamente,
molto più lentamente di ogni altra volta.
Mia nonna è il male minore di mia nonna.
Mia nonna mi mette una mano sulla spalla
e i capelli smorzano la carezza che dona.
Mia nonna è quel gesto obliquo con cui le tengo la testa
e ci insegna che niente dà più intimità della sofferenza.
Si ricorda quella canzone triste,
dice che fa: na na-na-na-na na na.
Per la prima volta in una vita intera
le sorrido per davvero.

*

Non ancora arresi

L’adolescenza ha sponde innocenti, con fiori
secchi e inermi, ma non ancora arresi
alla prigione sconfinata del mondo.
I giorni sono bollore che avvizzisce,
più tardi arriva il buio a illuminare
zone recondite dell’intimità e svuotare l’adolescente
dal disordine di sentimenti che si arrovellavano
attorno al suo cuore e al suo prepuzio,
per riempirlo solo di malinconia di fine
nella parte destra
e speranza di inizio nella parte sinistra.
L’adolescente è una formica per la notte.
La notte per l’adolescente è una parentesi
di attesa e rimorso, ininfluente alla vita.

*

Parco d’inverno

Mi ricordo un parco d’inverno.
L’erba umida.
L’ordine complesso con cui il vento
riordinava il ciarpame,
i sentimenti,
riportandoli nei corpi da dove erano sfuggiti.
Mi ricordo le sei di pomeriggio in un parco d’inverno.
La tenerezza sfilacciata di una coppia,
su una panchina trascina un abbraccio oltre il buio.
Mi ricordo una grossa nuvola grigia correre via
velocissima
da quel parco d’inverno
e un corvo nero che a un certo punto ci sparì dentro.
Mi ricordo una lacrima cadere in un parco d’inverno,
con il buio
e l’erba già umida
nessuno ci ha fatto caso.
Il gelsomino, dicono,
è un fiore che ritorna.

*

Disordine e primavera

Non piangere ancora,
nonostante sia inesplicabile la tristezza
di attendere un’alba priva di desideri,
una mattina di primavera
senza un amore di cui prendersi cura.
Malgrado il rimpianto nella solitudine,
e la confusione che hai generato,
nonostante tu sia il solo colpevole,
come ti sei prontamente dichiarato,
intanto che il sole colava sangue
sulla tua ombra distesa a terra.
Niente è più al suo posto,
non c’è nemmeno rimasto il posto
e la mancanza è la tua emorragia interna.
Malgrado ciò, prendi il godere dal disordine.
Il disordine è il solo modo razionale di vivere.

*

Fabrizio Sani è nato in provincia di Arezzo nel 1994 e vive a Roma. È laureato in Editoria e Scrittura presso La Sapienza. La sua prima raccolta di poesie, Si innamoravano tutti di me e io del loro amore, è uscita per SuiGeneris Edizioni nel 2018. Ha collaborato con case editrici e agenzie letterarie. Si occupa di letteratura e cinema su riviste cartacee e digitali. Partendo da alcune poesie contenute in questo libro, ha scritto e portato in scena (assieme al musicista Marco Nardone e alla pittrice Anita Zanetti) uno spettacolo dal titolo Lessico della mancanza.





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